Localizzazione |
Marina di Pisa (Toscana) |
Tipologia di percorso |
Pineta |
Specie segnalate |
Pinus pinea, Spartium junceum, Juniperus communis, Tamarix gallica, Myrtus communis, Rana esculenta (o Pelophylax esculentus), Lyristes plebejus |
"Descrizione del Percorso" e "Quando?" |
DESCRIZIONE DEL PERCORSO "Letteratura e Biodiversità" è un viaggio all'interno di una delle pinete più celebri della storia della letteratura, ovvero quella ove è ambientata "La pioggia nel pineto", illustre lirica dannunziana contenuta nell'Alcyone, il terzo libro delle Laudi. E' infatti interessante scoprire come tra le righe di un testo letterario possa manifestarsi una biodiversità che, supportata dall'elemento poetico e dai numerosi artifici retorici di cui fa uso l'autore, prenda quasi vita e si delinei vivida nella nostra immaginazione. Nell'intrico della pineta, sotto la pioggia che avvolge e imbeve ogni erba, ogni pianta, D'Annunzio ed Ermione si tramutano nella sostanza arborea del bosco, diventano tutt'uno con la selva che li circonda; non è una metamorfosi vegetale, come quelle che furono immaginate e descritte dalla mitologia dell'antichità classica, ma un disciogliersi e un fondersi completamente con la natura, perfetta espressione di quella serena e rispettosa convivenza tra uomo, ecumene e ambiente naturale che dovrebbe attuarsi ovunque sulla Terra, e che invece troppo spesso viene dimenticata o volontariamente messa da parte al giorno d'oggi, in nome di un progresso tecnologico che gradualmente e subdolamente sta destabilizzando ogni equilibrio naturale, finché l'uomo stesso ne perderà inevitabilmente il controllo. Recatomi di recente proprio lì dove il D'Annunzio trovò divina ispirazione per scrivere un capolavoro quale è "La pioggia nel pineto", davvero ho ritrovato tutti gli elementi descritti nella lirica, e sono stato pervaso da una istintiva sensazione di grande piacere, sapendomi immerso in una natura non certo incontaminata ma sicuramente rispettata dall'uomo, priva di rischi di barbaro vandalismo che potrebbero farle perdere quell'ineffabile bellezza che traspare tra i versi dannunziani. E' dunque evidente che il messaggio che ho in mente di proporre in questa ricerca è che scienza e letteratura non si escludono reciprocamente, ma talvolta si intersecano e si intrecciano, in una ritroviamo l'altra e viceversa, e, come appunto nel caso della lirica presa da me in esame, spesso esse si rafforzano vicendevolmente, stabilendo una pacifica nonché "fruttifera e ubertosa" convivenza.
QUANDO? La lirica fu composta tra luglio e agosto del 1902, quando D'Annunzio risiedeva in una villetta nei pressi della pineta di Marina di Pisa, in Toscana. Ancor più che oggi -in quanto da allora è trascorso un secolo, e il turismo era sicuramente meno diffuso di oggi- dobbiamo immaginarci un paesaggio dominato dall'elemento naturale, e dobbiamo figurarci il poeta che canta la gloria di un'estate tirrenica passata lungo le spiagge allora deserte della Toscana, tra le foci del Serchio e quelle dell'Arno. Sebbene io mi sia recato alla nobile -letterariamente parlando- pineta in primavera, per maggior coerenza con il periodo dell'anno in cui la descrisse D'Annunzio bisognerebbe recarvisi nella pienezza dell'estate, e in più in un giorno piovoso, in quanto il rumore della pioggia è indubbiamente fondamentale all'interno dell'architettura stilistica e contenutistica della lirica. GABRIELE D'ANNUNZIO
LA PINETA DANNUNZIANA
Ora dunque seguitemi in questo viaggio e addentriamoci nella pineta, immaginando di ritrovarci nelle stesse condizioni in cui si trovò l'autore: è estate, e da soli ci immergiamo in questo paesaggio verdeggiante, maestoso e bellissimo. Tutt'attorno regna il silenzio, senonché proprio tale silenzio, come in uno spartito musicale, appare vagamente scandito, o meglio esaltato, dal picchiettio e dal crepitio insistenti provocati dalle gocce di pioggia che cadono dal cielo, e poi dagli accordi delle aeree cicale, e infine dal "canto" delle rane; sebbene ci troviamo in prossimità del Tirreno, D'Annunzio afferma che "Non s'ode voce del mare". "Taci": così prende avvio il componimento, con un invito del poeta alla sua disincarnata compagna, un invito a tacere, per lasciare spazio al mutevole giuoco dei suoni della natura. E' a questo punto che alla sfera sensoriale dell'udito si affianca quella della vista, per accogliere la meravigliosa flora e la meravigliosa fauna ospitate in questo angolo di universo, piccolo ma quanto mai ricco di biodiversità.
TESTO MANOSCRITTO DANNUNZIANO
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"Curiosità"
LA TAMERICE Le tamerici, come ho già detto nella sezione dedicata alla descrizione delle specie, hanno una secolare, millenaria tradizione letteraria, e sono state citate nel corso del tempo da numerosissimi autori. Primo fra tutti Virgilio, che la utilizza con l'intento di indicare il carattere delle sue poesie bucoliche: "non omnis arbusta iuvant humilesuqe myricae", ossia "non a tutti piacciono gli arboscelli e le umili tamerici" ("humilis" letteralmente significa "basso", "vicino a terra", in quanto deriva da "humus"). Questa è una dichiarazione di poetica da parte del poeta latino, che nel proemio della sua IV bucolica afferma di non voler cantare una poesia aulica, erudita, ma di voler cantare ed esaltare qualcosa di piccolo, semplice, umile. Il celeberrimo verso virgiliano è poi ripreso quasi due millenni più tardi da Giovanni Pascoli, che intitola una sua raccolta di poesie proprio Myricae. La tamerice è poi citata da Eugenio Montale nella lirica "Fine dell'infanzia", contenuta nella raccolta "Ossi di seppia": "non erano che poche case/ di annosi mattoni, scarlatte,/ e scarse capellature di tamerici pallide...".
IL MIRTO Le foglie del mirto sono usate per la concia delle pelli e, in medicina, per la cura di varie affezioni, come ad esempio quelle dei bronchi e delle vie urinarie, anche se tali foglie vengono sfruttate specialmente per ricavarne un olio essenziale che è impiegato in profumeria. L’acque distillata delle foglie, molto aromatiche, è invece detta “acqua angelica” o “acqua di mirto”, ed è utilizzata come astringente. L’olio essenziale di mirto è un liquido giallo, leggero, di odore aromatico e piacevole, tipico delle foglie del mirto (Myrtus communis), dalle quali è possibile estrarlo per un processo di distillazione. Questo olio essenziale contiene come componenti principali mirtenolo, cineolo, borneolo, pinene e dipentene. L’olio essenziale di mirto è inoltre impiegato in medicina come balsamico, sedativo e antisettico, e in profumeria per preparare fissativi e come sostanza odorosa.
Per quanto riguarda la letteratura, il mirto viene citato già nella Bibbia e nei due poemi omerici. Il mirto fu nell’antichità classica la pianta sacra a Venere (la greca Afrodite, ossia la dea dell’amore) per eccellenza, in quanto la dea, dopo che Paride la decretò come la più bella tra le dee immortali, si cinse la testa proprio di rametti intrecciati di mirto. Il mirto è sempre stato considerato pertanto simbolo dell’amore e della poesia amorosa, per cui anticamente era usanza cingere di corone di mirto il capo dei partecipanti ai conviti e dei poeti, in particolare ovviamente quelli amorosi. Nella letteratura è sempre rimasto emblema della gloria poetica e della poesia in generale (“Tanto fu dolce mio vocale spirto, Che, tolosano, a sé mi trasse Roma, Dove mertai le tempie ornar di mirto”, Dante), talora anche dell’amore (“Desiosa di lauro e non di mirto”, Monti: si parafrasa con “desiderosa di gloria guerresca e non d’amore”), e talvolta indica proprio non solo il sentimento d’amore, ma anche l’ispirazione amorosa della poesia (“secco è il mirto”, Foscolo).
Per quanto concerne invece la cucina, nel basso medioevo, quando le foglie di questa pianta venivano bollite per ottenere degli infusi, qualcuno sperimentò, forse casualmente, l’infusione idroalcolica, procurandosi così l’antenato di quello che oggi è il liquore di mirto. Il mirto, sulle sponde del mar Mediterraneo, viene inoltre utilizzato spesso come spezia in cucina per insaporire carni al forno, cacciagione, patate. In Sardegna per esempio viene impiegato per impreziosire con il suo tocco di sapore l’arrosto del “porcetto sardo”.
LA CICALA Anche la cicala, tra mito è letteratura, ha goduto di grande fama nel corso dei secoli. Secondo gli antichi Greci infatti le cicale erano state generate dalla Terra o, se vogliamo seguire altre versioni del mito, da Titone e Aurora. Gli Ateniesi in particolare le veneravano e onoravano: il commediografo Aristofane ricorda per esempio le cicale d'oro, monile per la capigliatura degli Ateniesi nobili in età arcaica, e nella celebrazione del rito dei Misteri Eleusini in onore della dea Demetra era usanza portare tra i capelli una fibula a guisa di cicala, così come durante la celebrazione dei misteri di Era nella città di Samos. Per Platone le cicale erano invece gli antichi artisti, in particolare nel settore musicale e dell'eloquenza, che hanno smesso di mangiare e accoppiarsi per amore della propria disciplina, della propria arte. Secondo Orapollo (scrittore egiziano nato a Nilopoli) la cicala era l'emblema dell'iniziazione ai misteri, in quanto essa anziché cantare con la bocca, come fanno tutti, emette suoni dalla coda. La cicala simboleggiava anche la purezza: seguendo un'errata credenza ricordata nei suoi scritti da Plinio il Vecchio si pensava che le cicale si nutrissero di sola rugiada, e ciò faceva sì che il loro corpo non avesse sangue ed esse non dovessero espellere escrementi: da questo fatto ebbe poi ovviamente origine l'idea della purezza. Il fatto poi che la cicala viva per una sola estate ma le sue larve rinascano in quella seguente direttamente dal suolo ne ha fatto il simbolo di una resurrezione a nuova vita dopo la morte anche presso i Cinesi. Tra i poeti d'età moderna e contemporanea, Giosuè Carducci ha lodato questi insetti ne "Le risorse di San Miniato" e scherzosamente rimprovera Virgilio e Ludovico Ariosto per averle definite querule e noiose. Ma la cicala ha anche una fama negativa, legata alla credenza che essa viva "alla giornata" cantando spensieratamente e senza preoccuparsi del domani, assurgendo così a emblema dell'imprevidenza. Esopo, nella favola "La cicala e la formica", racconta che la cicala si fosse dilettata amenamente tutta l'estate a cantare senza provvedere ad immagazzinare cibo per l'inverno. Arrivata la cattiva stagione, fredda ed inclemente, essa si rivolse alla previdente formica, chiedendole aiuto e sostegno, e questa le chiese in risposta che cosa avesse fatto tutta l'estate per trovarsi in tali condizioni, al che la cicala rispose di aver sempre cantato e la formica replicò: «Allora adesso balla!».
LA GINESTRA La ginestra è un'altra di quelle piante che spesso ritroviamo nel mondo della cultura. In primis "La ginestra" (oppure "Il fiore del deserto) è il titolo di una famosa poesia di Giacomo Leopardi, composta nel 1836 a Torre del Greco, nei pressi della città di Napoli, e divulgata al grande pubblico per la prima volta nell’edizione postuma dei Canti, nel 1845. Sulle falde riarse e deserte del monte (e vulcano) del Vesuvio solo una pianta riesce a vivere, la ginestra, flessibile e tenace: essa è dunque l'emblema dell'uomo che sa accettare, tollerare, talvolta patire la verità sulle proprie condizioni e, in seguito, sulla base di questa verità, può erigere, elevare la propria dignità. L'Ulex aeuropeus, definito anche "Ginestrone", è uno dei 38 fiori di Bach: da esso infatti si ottiene l'essenza della floriterapia denominata Gorse, quella che tenta di curare la rassegnazione. (Si chiamano "fiori di Bach" oppure "rimedi floreali di Bach" una tipo di cura alternativa basata sulla floriterapia (che letteralmente significa "terapia con i fiori"), ideata e sperimentata dal medico britannico Edward Bach. La ginestra infine, nei dialetti e nel linguaggio del popolo, viene definita anche "frusta di Cristo", per la forma caratteristica dei suoi rami.
IL GINEPRO Le bacche del ginepro, sfruttate anche come aroma in cucina (in particolare per i piatti di selvaggina e per i crauti), conferiscono al gin il suo gusto peculiare, nonostante esso venga impiegato anche per la produzione della grappa di ginepro, della gineprata e del Kranewitter (tradizionale altoatesino). Dalle bacche di questa pianta si estrae poi tramite un procedimento di distillazione un olio essenziale denominato "essenza di ginepro". Ciò che rimane della distillazione, trattato con acqua e concentrato sotto vuoto, dà origine ad un liquido di carattere sciropposo chiamato "estratto di ginepro".
LA RANA Interessante è la figura della rana nella "Batracomiomachia", ossia il poemetto scritto in età ellenistica (un rifacimento parodistico dell'Iliade) che tratta di una lotta tra il popolo dei Topi e il popolo delle Rane, lotta che riprende lo scontro tra Greci e Troiani narrato nell'archetipico (già allora assurto a modello) poema omerico: la rana Gonfiagote reca involontariamente un oltraggio al topo Rubabriciole, e questo scatena il conflitto tra le due nazioni, conflitto che si concluderà con l'intervento finale dei terribili Granchi, giunti in soccorso delle stesse Rane ormai quasi sonfitte. E infine, per concludere in bellezza, come non citare l'illustre favola di Fedro sulla rana e sul bue, che ha accompagnato tutti noi nelle nostre letture d'infanzia? Chi, pur sapendo di non possederne le capacità, vuole imitare chi è superiore e più potente, finisce inevitabilmente male. Una rana vide una volta un bue che stava pascolando, e, presa da invidia per l'eccessiva grandezza di quell'animale, gonfiò la sua pelle rugosa: poi domandò alla sua prole se fosse più grossa del bue, e i figli diedero una risposta negativa. Allora la rana tese di nuovo la pelle, con sforzo maggiore, e nello stesso modo chiese di nuovo chi tra i due fosse più grosso. Al che i figli replicarono come avevano fatto la prima volta. Alla fine, esasperata ed esausta, mentre cercava di gonfiare ancora di più il suo corpo, la rana scoppiò e morì.
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